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I felafel, Bottura e l’internazionalismo

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di Davide Cacchioni

La settimana scorsa, durante l’incontro Renzi-Hollande, ero a Modena anch’io. Non sono stato invitato – come dicono i francesi, bien evidemment – a cenare all’Osteria francescana (secondo alcune classifiche il secondo miglior ristorante al mondo), tuttavia non ero molto distante da loro. Con alcuni amici si era deciso, infatti, di andare a mangiare da Nasser, lo chef di una rosticceria egiziana non lontana dal ristorante di Bottura.
Gustavamo i suoi superlativi felafel e lui ci spiegava che era in Egitto che sono stati inventati i felafel – eh sì! – e non altrove nel mondo arabo. Dopo i vari piatti di riso condito in tutti i modi e di melanzane favolose, ci versava il suo irresistibile tè alla menta. Con mano sicura avvicinava la teiera al bicchierino, la portava delicatamente verso l’alto, allungando il filo del getto di bevanda fino a una certa altezza, per poi riaccostarla subitaneamente al bicchierino ormai empio. Non credo che Bottura abbia versato il tè a Renzi e Hollande come Nasser l’ha versato a noi.
Il weekend della settimana scorsa c’era anche il festival della filosofia a Modena. Zagrebelski ci ha incantato col suo intervento in Piazza grande sulla questione dei rapporti tra generazioni (il tema del festival era l’ereditare), che poi si è espanso fino a criticare la società della crescita infinita, a riflettere sul declino dei diritti sociali e a interrogarsi sul rapporto diritti-doveri. Il pomeriggio dello stesso giorno (mi pare) un prof francese, François Hartog, storico delle temporalità, proponeva un’analisi dell’oggi come il tempo del presentismo. Il tempo dell’attimo attuale conchiuso nell’indipendenza irresponsabile dalle sue cause e dalle sue conseguenze. Il tempo di un presente orfano di passato e sterile di futuro.
Insomma, mentre tutte queste suggestioni mi frullavano in mente, mi sono sentito parte, in maniera chiaramente percepibile, di un mondo che con le sue suggestioni gastronomiche, umane e intellettuali veniva a bussare alla porta del mio stomaco, della mia intelligenza e della mia vita. Mi sono sentito parte di un internazionalismo vivente, di un meticciato diffuso. Di un incontro, cioè, stabile e fecondo di diversità: lo storico francese e il ristoratore egiziano venivano a nutrirmi di felafel e concetti nella mia città universitaria. Due mondi estremamente distanti (immagino un appartamento da professore universitario nel 6ème arrondissement a Parigi e le strade del Cairo controllate dai soldati della Giunta militare), eppure compresenti. E intrecciati.
E sentivo poi molto forte una preferenza immediata, quasi fisica. Il mio internazionalismo non era quello di Renzi che porta Hollande a cenare da Bottura, ma quello al sapore di tè alla menta, così magistralmente versato da Nasser.


postato il 3/10/2015

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