E-MIGRANTI

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qui Australia: l'altro tram tram

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di Cinzia Curini

I mezzi pubblici potrebbe essere definiti un non luogo, e forse non è un’idea nuova. Andare a lavoro in autobus e tram è un’estensione del dormiveglia, il cuscinetto che avvolge le ore di lavoro in ufficio nel Nord e nel Sud del mondo. Ovvio ci sono differenze dovute alla comodità di questi cuscinetti, per esempio a Jakarta i mezzi pubblici sono rilassanti quanto un girone infernale. A dire il vero, in Italia mi è capitato di rado di passare molto tempo sui mezzi pubblici per andare a lavoro. Mi sta capitando dall’altra parte del mondo, adesso, e lo scopro piacevole.
 A Melbourne i treni, autobus e tram sono efficienti, frequenti e ragionevolmente veloci, anche se in questa città sembra che nessuno vada di fretta. L’autobus è una parentesi calma, quando si sale a bordo l’autista ti guarda e saluta con garbo e si aspetta di essere salutato, poi guida senza parlare al telefono e le corsie preferenziali funzionano piuttosto bene. Insomma, proprio come in Italia! Ricordo lo stupore nello scoprire tale pratica del saluto, all’inizio, e il disagio di sentirmi in dovere di salutare, ma mi fu impossibile resistere davanti a quei sorrisi con cui si salutano gli sconosciuti downunder.
 Questa fu una delle cose che mi piacque da subito, immediatamente contagiosa, e ormai lo faccio ogni volta che salgo e scendo, ringraziando, da un tram o autobus, da anni. La figura dell’autista è sempre accogliente e sull’autobus nessuno scalpita, smania, parla ad alta voce, anche se è in ritardo. La mattina la gente è tutta impegnata a sonnecchiare ad occhi chiusi o aperti, ad ascoltare musica in cuffia o a scorrere lo sguardo sullo schermo del telefonino. Il traffico è silenzioso, nessuno si lascia andare a escandescenze con il clacson e ogni volta che ci penso mi stupisco di come anche questo faccia bene alla tranquillità mentale della gente. Quando guido e qualcuno lo suona senza motivo apparente mi sento aggredita ingiustamente e mi accorgo che mi predispone molto diversamente verso gli altri. 
A differenza che in Italia, è molto difficile non prendere una multa sui mezzi pubblici se si viaggia senza biglietto. Qui c’è una carta prepagata come biglietto che si può ricaricare anche sull’autobus con l’aiuto dell’autista, oltre che alle macchinette automatiche delle fermate o delle stazioni, nei negozi Seven Eleven e ovviamente online. Insomma, tutto funziona senza fare una piega. Se la fa, a monte si cerca di migliorare il servizio. Il centro di Melbourne, il business district composto da un rettangolo di strade perpendicolari dove si alternano palazzi antichi a grattacieli, è la free-tram zone. Si viaggia gratis e i tram sono sempre carichi di persone, ma non stracarichi, perchè non può esserci contatto fisico in cui questa ex colonia britannica, quindi tutti continuano a stare nel loro spazio vitale, silenziosi, o al limite arrivano a parlottare tra loro. Ma tutt’a un tratto, può capitare che le orecchie carpiscano come un radar dei suoni intellegibili appartenenti alla nostra madrelingua.
Una voce che parla italiano, isolata, che si staglia, chiara e netta nonostante la folla, a spezzare quella specie di silenzio percepito fatto di suoni relegati a frequenze inaudibili. E spesso è una voce sola, che parla al telefono; nove volte su dieci, è la voce di un emigrante, e quello che racconta sono storie di emigranti, che seguono più o meno sempre lo stesso copione.  Facendo il punto della situazione, come parlando a se stessi ad alta voce, narrano senza fretta quello che sentono dentro, a voce alta come quando si incontra un vecchio amico per strada e ogni luogo diventa caldo e comodo come davanti al focolare domestico.
Nel deserto degli affetti dell’emigrante ci si lascia andare a quel momento di intimità, tra maturità e nostalgia, e i viaggi senza tempo sul tram ne sono la cornice adatta per intraprendere quella telefonata che sembra avvenire con la propria coscienza. Per me che ascolto, mio malgrado, scompaiono il silenzio e il brusio pacato della parlata inglese, lasciando spazio a conversazioni ascoltate solo a metà ma che contengono sempre le parole visa, hospitality, farm.
Il tram diventa un varco, un limbo che attutisce il rumore della vita che scorre intorno, un palco sui cui avvengono rivelazioni sincere e si discutono bilanci di vita vissuta, alla ricerca del punto della situazione e trascendendo la possibilità di essere o meno ascoltati, e oltretutto compresi da chi vive la stessa situazione di expat e quei discorsi li ha già fatti e sentiti a ripetizione.
 È stupefacente vedere che la storia che tutti noi migranti viviamo o abbiamo vissuto è più o meno la stessa, e la si racconta all’esterno molto spesso in modo simile: tutti abbiamo detto o pensato che forse partiremo per tornare in Italia quando qui sarà inverno, o che aspettiamo una determinata stagione per trovare lavoro in un certo tipo di azienda agricola per poter rinnovare il visto, e così via. Tutti abbiamo detto e pensato a volte che non ce la facciamo più e che forse è il caso di tornare e basta, invece di insistere con la ricerca di uno ‘sponsor’ che sempre più persone cercano, venendo qui da tutto il mondo. Io che non ho più questi pensieri martellanti, questo senso di forzata precarietà, penso all’Italia e mi chiedo quanto siano diversi da questi i discorsi degli immigrati in Italia, delle badanti dell’Est che si incontrano al parco, dei senegalesi con le lenzuola piene di borse taroccate, dei cinesi e di tutti gli altri giunti in Italia come abbiamo fatto noi noi in Australia. Ma c’è la stessa dignità per loro nel nostro Paese o no?
Come si va verso la sera gli bus si popolano di tutta un’altra varietà di persone. Il chiacchiericcio aumenta senza diventare mai troppo spinto, i telefonini ipnotizzano sempre di più i viaggiatori di ogni razza. I poveri autisti sembrano ancora più bisognosi di sorrisi e saluti, e ai semafori guardano perplessi nellospecchietto la nuova era della (non) comunicazione. Senza commentare, perlomeno ad alta voce.


postato il 18/4/2015

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