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Zac7 - Il giornale del Centro Abruzzo

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qui Australia:
Aussie style


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di Cinzia Curini

Quando sono arrivata in Australia, quasi cinque anni fa, una delle prime cose che mi ha colpito è stato il modo di vestire della gente, e così è, scommetto, per ogni italiano che capiti da queste parti. Quella che noi chiameremmo sciatteria qui è la normalità, ma spesso cela uno stile ricercato che segue una sola logica: la libera espressione del sé attraverso il modo di apparire. A pensarci bene mi aveva fatto un effetto simile Bologna quando ci andai a vivere per frequentare l’università. Era così bello girare sotto i portici e vedere persone vestite in modo colorato, morbido per gli occhi, rispetto agli schemi rigidi dei canoni adolescenziali (e non) della cittadina di provincia da cui provenivo. Mi sembrava di essere tornata bambina davanti a tutto quel colore che bilanciava il grigio del cielo in terra. Bologna mi regalò anche i sabati alla Montagnola, dove il mio gusto un po’ retrò trovò la sua ragion d’essere. Ma niente di paragonabile all’Australia, o meglio a Melbourne, per non generalizzare troppo.
Quello di cui voglio parlare oggi è una cosa fantastica che purtroppo in Italia è poco diffusa: i negozi di seconda mano. Qui si chiamano Opportunity shops, in breve Op Shops. Ci sono catene di negozi, come quelli della Charity nazionale ‘Salvation Army’, accanto a una miriade di altre associazioni. Tutte raccolgono e selezionano abiti, mobili, libri, giocattoli e ogni sorta di oggetti buttati, o meglio donati da chi se ne vuole liberare, per poi rivendere a prezzi adatti a tutte le tasche generando profitti che vanno a coprire i costi di gestione del negozio e in più ad alimentare supporto e donazioni per i cittadini meno abbienti. C’è chi si compra l’abito da sposa a poche decine di dollari, chi il frac o il cappellino per andare alle corse dei cavalli a dieci, cento volte il prezzo pieno. Alcuni piccole realtà di questo tipo vanno avanti grazie al volontariato di persone anziane che, ormai in pensione, trovano così un modo di passare il tempo tenendosi attivi, soprattutto socialmente. Altri negozi assumono personale stipendiato con i proventi della vendita. Tutto questo funziona alla perfezione e alimenta il circuito di beneficienza e il processo creativo degli abitanti di questa fantastica città chiamata Melbourne.
Negli op-shop si può trovare di tutto, da capi di abbigliamento firmati anche Prada e Max Mara, Vuitton e Chanel a vinili, libri, oggetti di arredamento, macchine per fare la pasta all’uovo o artigianato di provenienza esotica, quadri di pittori domenicali, giocattoli per bambini, biciclette, lenzuola e coperte, bigiotteria, mazze da golf, ferri da maglia e corsi di cucito e chi più ne ha più ne metta. C’è chi ci si fa il guardaroba, chi ci arreda casa e anche il giardino invece di andare all’Ikea, spendendo molto meno. Tanto poi ci si stufa o si parte e bisogna disfarsi di tutta quella roba.
Una città con tanta gente di passaggio come Melbourne è il contesto ideale per avere un ricambio continuo di merce in vendita negli op-shop o nei mercatini dell’usato. Quello che si compra a pochi dollari oggi un giorno tornerà lì o in un altro op-shop per rimettersi in circolo in questo vortice di oggetti ‘pre-loved’, poeticamente usati, che è il mondo del ‘second hand’. Quando ero in Italia avevo già scoperto la dimensione spazio temporale dei mercatini dell’usato, tra la Pazza a Pescara, la Montagnola, Porta Portese, e le bancarelle di piazza Garibaldi a Sulmona, ma mai avevo pensato che questo circuito di cose e persone potesse avere una dimensione così nobile, lieta e utile come a Melbourne.
Qui ogni op-shop è un continuo via vai di persone che cercano l’accessorio più sorprendente, l’oggetto più intrigante che quella particolare contingenza in atto può offrire, e abbinano moderno e antico in continuazione nel loro modo di vestire e di arredare la propria casa, o il loro stesso negozio, bar o studio professionale.
Melbourne è un museo a cielo aperto, dove tutto coesiste pacificamente, ciò che è nuovo e attuale accanto a quello che è scartato perché inutile o vecchio, ma che riacquista significato grazie a qualcun altro che lo sa valorizzare con il proprio estro creativo. È un puzzle bello anche se mai completo, un circolo virtuoso più vivo che mai che alimenta l’economia e aumenta la creatività personale. E alla fine diventa pura e semplice libertà di espressione, valore sancito e tutelato anche da questa Costituzione. Se solo questo fosse possibile in Italia, avremmo più colori addosso e forse più sciatteria in giro, ma impareremmo a giudicare meno l’abito e a preoccuparci di altre cose più importanti.


postato il 21/3/2015

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